Ripensare le basi eziologiche della neurodegenerazione

 

 

GIOVANNI ROSSI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVI – 16 novembre 2019.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Le malattie neurodegenerative sono tra le principali cause di disabilità e morte del mondo occidentale e, per tale ragione, costituiscono anche i processi patologici più studiati in ambito neuroscientifico. Il numero di progetti di ricerca attualmente in corso, di laboratori e di istituti interamente dedicati allo sviluppo di indagini sui processi di degenerazione è veramente impressionante; tuttavia, i risultati continuano ad essere parziali e mai risolutivi dei problemi principali che i medici pongono ai ricercatori.

Le autorità sanitarie dei maggiori paesi occidentali e orientali esercitano pressioni sulla ricerca perché il già notevole fardello economico costituito dai costi sociali di malattia e invalidità si prevede che debba aumentare, con la stabile crescita dell’aspettativa di vita che si registra da alcuni decenni. Nonostante si disponga da lungo tempo, come nel caso della L-DOPA nel Parkinson, di alcune soluzioni terapeutiche specificamente concepite per compensare difetti o contrastare alterazioni emergenti nella fisiopatologia del danno, il complesso delle soluzioni terapeutiche, inclusi i trapianti cellulari e i trattamenti genici, è considerato palliativo dalla maggior parte dei clinici.

È vero che generalmente, nei maggiori processi neurodegenerativi, le manifestazioni cliniche di rilievo diagnostico emergono dopo anni di evoluzione subclinica della malattia, ma è anche vero che una diagnosi precoce, nella maggior parte dei casi, non cambierebbe molto la prognosi quoad vitam, per la mancanza di trattamenti eziopatogenetici.

Castillo e numerosissimi colleghi, prendendo le mosse dal quadro teorico che implicitamente fonda la ricerca in questo campo, assumono una posizione critica e propongono quattro interessanti possibilità alternative, che non si escludono mutuamente.

(Castillo X., et al. Re-thinking the Etiological Framework of Neurodegeneration. The Frontiers in Neuroscience – Epub ahead of print doi: 10.3389/fnins.2019.00728, eCollection 2019).

La provenienza degli autori è prevalentemente la seguente (sono elencati 24 istituti): Institute of Neurobiology, National Autonomous University of Mexico, Mexico City (Messico); Institute of Neurobiology, University of Puerto Rico, San Juan, PR (USA); Institute of Cellular Physiology, National Autonomous University of Mexico, Mexico City (Messico); Artificial Intelligence in Medical Imaging KJP, Ludwig Maximilian University of Munich, Munich (Germania); Friedrich Miescher Institute for Biomedical Research, Basel (Svizzera); Center for Stroke Research Berlin, Charity University of Medicine, Berlino (Germania).

Lo studio di fattori ambientali quali agenti eziologici delle malattie neurodegenerative, si pensi all’alluminio per la malattia di Alzheimer e a i tossici neurolesivi specifici dei neuroni dopaminergici nella malattia di Parkinson, non è mai diventato un mainstream della ricerca in questo campo, ma non è mai stato abbandonato del tutto, anche se ben pochi ricercatori ritengono che la comprensione dei meccanismi molecolari innescati da questi agenti possa consentire di comprendere i processi determinanti per lo sviluppo della neurodegenerazione nella maggior parte dei casi.

Per le più note e studiate malattie neurodegenerative, l’aggregazione familiare è stata già riconosciuta quale tratto saliente molte decadi prima della scoperta delle prime basi biochimiche e di genetica molecolare della degenerazione. Quale dato di fatto, secondo Tanzi e colleghi, solo l’identificazione di mutazioni specifiche, “segreganti con la malattia”, in geni precedentemente sconosciuti ha diretto l’attenzione dei biologi molecolari su particolari proteine e vie enzimatiche, che ora si considerano cruciali per lo sviluppo delle varie forme cliniche. Queste includono la scoperta di mutazioni nel polipeptide precursore dei peptidi β-amiloidi (APP) che hanno ruolo causale malattia di Alzheimer; mutazioni nell’α-sinucleina, implicata nella patogenesi della malattia di Parkinson; mutazioni nella proteina associata ai microtubuli tau, responsabili di demenza fronto-temporale con parkinsonismo[1].

Un altro tratto caratteristico delle più comuni malattie neurodegenerative è la dicotomia tra forme familiari, rare e spesso a ereditarietà mendeliana, e forme non-familiari, comuni e a eredità non-mendeliana. Tali forme sono state anche definite “idiopatiche” o “sporadiche”, anche se numerosi studi hanno dimostrato anche in questa casistica l’importanza di fattori genetici.

Nonostante i progressi compiuti nella conoscenza delle basi molecolari dei processi neurodegenerativi, l’identificazione di reali e affidabili fattori di rischio si è rivelata problematica. Così come non è scevra da problemi l’interpretazione degli esiti degli studi clinici e delle osservazioni neuropatologiche. Ad esempio, un campione numeroso e perciò significativo di pazienti con diagnosi clinica di malattia di Alzheimer ad inizio tardivo può, in realtà, essere costituito da una maggioranza di pazienti realmente affetti da quella patologia, ma anche da una percentuale imprecisata di persone ammalate di altre forme di demenza, quale quella a corpi di Lewy o quella frontotemporale che, spesso, presentano in età avanzata un profilo clinico indistinguibile da quello della malattia di Alzheimer.

Un’altra questione – spesso sottovalutata – è che una percentuale molto alta di casi di patologie neurodegenerative si manifesta dopo i 70 anni, cosa che rende difficile la ricostruzione della struttura familiare in rapporto a indici di patologia, necessaria per le analisi genetiche[2].

Il problema maggiore è poi rappresentato dall’elevato grado di eterogeneità genotipica e fenotipica. In altri termini, ciò vuol dire che non solo lo stesso fenotipo può essere causato o modificato da numerosi loci genici ed alleli, ma anche che le mutazioni e i polimorfismi nello stesso gene possono portare a sindromi cliniche diverse. Inoltre, combinazioni di fattori genetici e non genetici influenti sullo sviluppo di neurodegenerazione possono verificarsi in particolari gruppi etnici o aree geografiche, complicando ulteriormente l’interpretazione delle cause.

Per tutte queste ragioni, ed altre che sono dettagliate nelle trattazioni monografiche specialistiche, si è giunti ad accumulare un numero veramente elevato di geni di suscettibilità e una gamma tanto varia quanto poco definita di fattori di rischio per le principali malattie neurodegenerative. Nella maggior parte dei casi, gli studi di verifica, tranne qualche rara e significativa eccezione, non hanno confermato il ruolo di loci e alleli rilevati alle prime indagini, anche per il tipo di approccio metodologico seguito fino a tempi non recentissimi. Le tecniche di genotipizzazione massiccia e parallela, e poi il sequenziamento genico, che consentono di interrogare i genomi di numerosi soggetti a vario grado di risoluzione, hanno in parte migliorato la razionalizzazione degli esiti sperimentali.

L’approccio attualmente più seguito dagli istituti di ricerca genetica è lo screening basato sull’associazione estesa all’intero genoma (GWAS, da genome-wide association) mediante il quale più di un milione di marker genetici sono simultaneamente genotipizzati e valutati per potenziali associazioni con la probabilità di ammalarsi e con altre variabili fenotipiche, quali l’inizio della malattia, l’andamento clinico e la sopravvivenza. Per dirla con Rudolf Tanzi, dal 2005 la comunità genetica ha prodotto un diluvio di cosiddetti studi GWAS, con alcune centinaia dedicati alle malattie neurodegenerative. Da questi sono emersi loci associati alle malattie, la cui correlazione ha ricevuto convincenti conferme, e si prevede che molti altri loci saranno riconosciuti da studi in corso e futuri.

Nonostante abbia consentito di ottenere dati formalmente certi e sicuramente affidabili, l’approccio GWAS presenta il limite di poter studiare soltanto tipi di variazioni genetiche relativamente comuni, ossia i polimorfismi, che compaiono con una frequenza maggiore all’1% nella popolazione generale. Come abbiamo avuto modo di sottolineare negli anni recenti, è probabile che una parte importante della base genetica delle patologie poligeniche sia costituita da varianti di sequenza rare, ossia quelle con una frequenza nella popolazione generale inferiore all’1%. Le nuovissime tecnologie stanno consentendo l’identificazione ex-novo di tali varianti rare, mediante la possibilità, mai concepita prima nella storia della genetica, di studiare l’intero genoma alla risoluzione delle coppie di basi. Questo approccio, che ha già fornito qualche risultato importante, si ritiene che per la fine dell’anno prossimo possa diventare il principale metodo di studio in genetica molecolare.

Da questa sintesi panoramica si evince che la distanza fra la definizione esatta delle cause di ciascuna malattia degenerativa e i risultati della ricerca corrente è ancora enorme. Ma non sono pochi i ricercatori che ritengono necessario un aggiornamento dell’approccio teorico in patologia al problema delle cause, perché la semplice dicotomia principale genetica/ambiente, integrata dallo studio del ruolo dei cambiamenti epigenetici, sembra non essere sufficiente ad affrontare i quesiti posti dalle malattie neurodegenerative.

Castillo e colleghi rilevano che i modelli concettuali con valore euristico impiegati per studiare la neurodegenerazione sono stati costruiti retrospettivamente, basandosi su segni e sintomi già presenti nei pazienti; tale circostanza – osservano gli autori dello studio – può favorire la confusione tra cause e conseguenze. Per tale ragione, sostengono, sono necessarie prospettive paradigm-shifting dell’eziologia di queste malattie, per consentire prevenzione e trattamento tempestivi. Ecco, in estrema sintesi, le quattro tracce ipotetiche proposte.

1) La neurodegenerazione può essere considerata un esito secondario a una causa primaria cardiovascolare, con una patologia vascolare che perturba le vitali interazioni omeostatiche tra il sistema vascolare intracerebrale e la funzione delle strutture dell’encefalo. La perdita di tale cooperazione fisiologica sarebbe causa di difetti cognitivi e poi di demenza, tanto quanto di eventi cerebrovascolari acuti, ictus compreso.

2) La persistenza di cellule cerebrali senescenti nei circuiti neuronici può favorire, insieme con malattie metaboliche sistemiche, lo sviluppo dei processi degenerativi.

3) L’avvio della neurodegenerazione potrebbe essere una risposta all’alterazione delle interazioni trofiche tra corpo e cervello stabilite per mezzo delle connessioni che collegano bersagli periferici a strutture del sistema nervoso centrale, o per mezzo della comunicazione mediata da vescicole extracellulari (EV).

4) La disbiosi corporea di una vita intera potrebbe essere associata con la neurodegenerazione. In particolare, gli autori dello studio evidenziano l’esistenza di prodotti batterici che modulano l’asse cervello-intestino, in grado di causare neuroinfiammazione e disfunzione neuronica.

Castillo e colleghi sostengono l’importanza di sviluppare interi filoni di ricerca, nel prossimo futuro, per indagare queste potenziali vie alla degenerazione delle strutture nervose. Per far ciò si richiede un approccio sperimentale del tutto diverso da quelli settoriali attualmente seguiti: sarà necessario concepire un approccio interdisciplinare integrato per indagare aspetti multimodali della fisiologia e della fisiopatologia. Tale radicale cambiamento implica l’utilizzo di appropriati modelli concettuali e di unità sperimentali animali, accanto alla capacità di identificare opportunità derivate da dati emersi dall’osservazione umana, attualmente non sfruttati.

Gli autori dello studio qui recensito affermano con convinzione che le quattro vie eziologiche proposte e i loro suggerimenti sperimentali debbano essere tenuti in grande considerazione, come delle linee-guida per la futura ricerca cosiddetta cross-discipline, per giungere ad un reale lavoro di traduzione (translational) delle conoscenze di base in nozioni in grado di consentire lo sviluppo di strumenti veramente efficaci di prevenzione e trattamento.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di studi di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanni Rossi

BM&L-16 novembre 2019

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Lill C. M., Tanzi R. E., Bertram L., Genetics of Neurodegenerative Diseases, in Basic Neurochemistry (Brady, Siegel, Albers e Price), p. 719, AP Elsevier, 2012.

[2] Si pensi a tutti i membri di una famiglia che non hanno vissuto fino ad età avanzata e, dunque, non hanno sviluppato la malattia solo per questa ragione; si devono poi considerare i problemi dati dall’età del paziente per la ricostruzione di un albero genealogico in rapporto a fenotipo e genotipo di malattia: la quasi totalità dei membri della generazione precedente è deceduta.